Questo
racconto è dedicato a due giovani
e alle
loro splendide anime.
Lei si
chiama Lisa, lui mi pare si chiami Mauro.
Li
incontrai, un giorno, in mezzo al Parco di Monza.
E
spero, un giorno, di poterli incontrare di nuovo!
Quest’anno ho scoperto che
il Destino è un mio grandissimo fan; un fan un po’ apprensivo, a dir la verità,
che, ingiustamente preoccupato che rimanga senza ispirazioni per i miei
thriller, me ne fa capitare di tutti i colori. La storia che state per leggere
è assolutamente vera. Dopo una lunga e attenta meditazione ho deciso di
scriverla “in soggettiva”, telecamera immaginaria alla mano, per portarvi con
me, a bordo della mia carrozzina elettrica, e farvi vivere quello che ho
vissuto io, esattamente come l’ho vissuto io: pensieri compresi. La data e i
luoghi sono veri, i nomi dei personaggi sono ovviamente modificati per
salvaguardare la loro privacy. Solo i nomi di Lisa e, mi pare, Mauro (ho una certa
idiosincrasia con i nomi maschili), protagonisti assoluti della terza parte,
sono veri; e ho voluto mantenerli tali in modo che loro si possano riconoscere
e io possa ringraziarli. Ma ora basta con le chiacchiere, e seguitemi nei
meandri del parco di Monza e della mia mente. (Sergio Rilletti)
Domenica 9 aprile 2006, Ore 13.10 circa, Parco
di Monza
Vanno. Loro vanno. E io, rimango sempre più
indietro.
Certo che seguire due risciò con una
carrozzina elettrica di modeste dimensioni e di scarsa potenza come la mia, non
mi sembra un’idea proprio geniale, anche perché il terreno qui è sconnesso. Ma
come potevo impedire agli altri di andarci? Ora dovrò fare la passeggiata
da solo, e accontentarmi dei momenti di contatto che avrò quando si fermeranno
ad aspettarmi. Accontentarmi e gustarmeli. Fino in fondo.
Già, accontentarmi. Loro davanti, tutti
assieme, che si divertono; e io qui dietro, da solo, che arranco. D’altronde,
non potevo certo oppormi, non potevo impedire agli altri di fare questa
bell’esperienza.
Ma come ha potuto Carletto fare una proposta
del genere?
Speriamo almeno che si fermino. Qui il
terreno è accidentato, e la carrozzina traballa.
Sì, sì; sicuramente si fermeranno. Carletto è
un professionista: sa quello che fa. Sì, ecco, si fermano. Bravo, Carletto:
sapevo di poter contare su di te! Ora vi raggiungo. Ancora qualche metro su
questo terreno sconnesso, e sono da voi. Una buca, due buche, una pozzanghera
di fango, un dosso di terra battuta, e ancora una buca. La carrozzina traballa
per tutto il tempo, ma alla fine vi raggiungo. Sorrido. Anche Carletto sorride,
e poi mi fa: “Senti… Possiamo andare avanti?”
A me si raggela il sangue e non dico nulla,
paralizzato, sbalordito; ma Carletto non si accorge di niente e prosegue: “Ti
fai una bella passeggiata da solo nel parco fino alla cascina. Tanto la strada
è facile: vai avanti fino all’autodromo e poi giri a sinistra, costeggiandolo.”
Sconcertato, rispondo di sì. Io non sopporto
l’idea di rimanere da solo in un luogo pubblico, soprattutto in un parco; un
parco non mi dà alcun senso di sicurezza: si può incontrare chiunque, in un
parco, assolutamente chiunque. Ma che diritto ho io di limitare agli altri
questa bell’esperienza? Domando di nuovo la strada, con espressione
estremamente titubante, per far capire che non sono affatto sicuro, Carletto me
la ripete, e io, sempre titubante, li saluto. Tanto, penso, si
gireranno. Non mi perderanno certo di vista!
Vanno. Loro vanno. Senza voltarsi.
E mi distanziano sempre più.
Io arranco con la mia piccola carrozzina
elettrica. Qui il terreno è asfaltato, procedo abbastanza bene. Li vedo
allontanarsi. Già, si allontanano. E non si voltano.
Cazzo, ma voltatevi!
Niente. Non si voltano.
Vedo, lontano, una curva; una curva che
devono intraprendere. Sarei tentato di tagliare per il prato, per avere almeno
una piccola possibilità di raggiungerli, ma se mi ribalto che faccio? Il
terreno erboso è il più insidioso di tutti, perché l’erba copre, e,
sotto l’apparenza di un terreno verde e pianeggiante, si cela sempre un terreno
accidentato, pieno di dune, pendenze, e avallamenti. E le possibilità di
ribaltarsi sarebbero infinitamente superiori! Non mi fido, e decido di
proseguire per la strada principale; anche se sono consapevole che non li
raggiungerò mai.
Continuo, senza perderli di vista.
Finché posso.
Poi salgono su una montagnetta; su, su, fino
in cima.
Li guardo, per vedere se si girano. Si
gireranno sicuramente per salutarmi. Si girano? No, se ne vanno:
proseguono. Lasciandomi definitivamente solo.
Oh, cazzo! Speriamo in bene!
Avanti fino all’autodromo e poi giri a sinistra, mi hanno detto. Devo
costeggiare l’autodromo. Ma dov’è l’autodromo? Speriamo almeno che la batteria
della carrozzina duri fino alla cascina, che non si scarichi prima. Proseguo, tesissimo.
Maledico il momento in cui ho accettato. Maledetta generosità! Ora loro
(Carletto, i due assistenti dell’Organizzazione, e i tre miei compagni) sono
tutti insieme a divertirsi, mentre io sono qui a girare da solo come un pirla! Mi
impongo di calmarmi, ci riesco; tanto ormai è inutile: sono da solo! Quindi, ho
due alternative: o continuare a recriminare o godermi il panorama. Opto per la
seconda. Intanto proseguo sempre dritto, per un bel po’. Dritto, e poi
all’autodromo a sinistra, costeggiandolo, mi ripeto. Meno male almeno che
il tempo è bello. Pensa un po’ se minacciasse di piovere…
Continuo la mia marcia forzata ostentando un
interesse particolare per tutto il verde che mi circonda. Laggiù, lontano, vedo
anche le montagne innevate. Non che mi interessi in modo particolare un
panorama che, andando a questa velocità, cambia poco; ma almeno mi aiuta a
distrarmi e a non pensare che sono solo… e che devo trovare la strada per
tornare alla cascina. A proposito: dove cazzo è l’autodromo? Ormai è da un
po’ che sto camminando. Possibile che sia così avanti? Possibile che siano
andati così avanti? Mi fermo, scruto l’orizzonte, ma dell’autodromo non si
vede neanche l’ombra. Eppure non è piccolino. È un autodromo, voglio dire:
se ci fosse, lo vedrei! Anche lontano, magari, ma lo vedrei! Rischio di
farmi prendere dal panico; invece no, non devo!
Aziono la cloche della mia carrozzina, e
procedo. Se ti hanno detto vai avanti fino all’autodromo, e non vedi ancora
l’autodromo, vuol dire che non sei ancora arrivato. Semplice, no?
Semplice un corno! Se sei in un posto
sconosciuto, hai solo una vaga idea di dove dover andare (sperando, tra
l’altro, di aver capito bene), non vedi mai arrivare questo cazzo di punto di
riferimento (peraltro neanche tanto piccolo), ti guardi intorno e ti sembra
tutto uguale, e non puoi neanche chiedere una conferma a qualcuno perché le tue
difficoltà motorie ti creano qualche problemino nel farlo, allora no, non è
affatto semplice essere sicuri di non aver sbagliato strada. Ma proprio neanche
un po’. E comunque non ti preoccupare, mi dico. Appena non ti
vedranno arrivare, ti verranno sicuramente a cercare! Ora non devi fare altro
che andare avanti fino…
Mi blocco.
Mi raggelo.
Ma no… non è possibile!
E mo’, dove vado?
MA DOVE CAZZO E’
L’AUTODROMO?!
Sono arrivato a un incrocio a T. Davanti a me
la strada è sbarrata da un paio di panettoni. O meglio: non è che sia proprio sbarrata,
ma comunque il passaggio non è abbastanza largo per un risciò. E poi, al di là
dei panettoni, il terreno sembra sabbioso. Evidentemente è qui che devo girare
a sinistra. Sì, ma… Dove è l’autodromo?
Vado. Ma le cose non stanno andando come
previsto. E questo non mi piace neanche un po’. Sto abbandonando il viale
principale. Non è prudente, lo so, ma per un po’ rimarrò comunque ben visibile:
se ripassassero, mi vedrebbero sicuramente! E poi, loro mi aspettano in
cascina. L’appuntamento è là!
Arrivo a un altro incrocio. Ora ho tre
possibilità: o attraversare la strada e proseguire diritto (però quella mi
sembra una zona un po’ troppo boscosa), o immettermi in questa strada dove
scorrazzano le auto (e non ci penso proprio!), oppure seguire questo
controviale pedonale che costeggia la carreggiata delle auto. Sì, questa terza
soluzione mi sembra la migliore: la seguo. Anche perché, in effetti, quelle
auto devono pur fermarsi da qualche parte. Non è detto, ma magari vanno proprio
all’autodromo. Procedo lungo il controviale, mentre le auto continuano a
sfrecciare alla mia sinistra. Ecco. Ora ho completamente abbandonato il viale
principale, non lo vedo più; e per ogni metro che faccio su questa strada, la
tensione aumenta. Speriamo in bene, speriamo di aver fatto la scelta giusta!
No!…
Rallento.
No!…
Rallento.
No!…
Mi fermo.
Di nuovo. Per forza.
Nooo!… Ma porcaputtana! Ma
non è possibile!… E che è?!
La strada è sbarrata, di nuovo. E questa
volta non si tratta di semplici panettoni, tra cui, magari, potrei passare; no,
è proprio sbarrata, chiusa!
Ansimo. Sento un brivido corrermi lungo la
schiena: parte dalla cervicale e si snoda in tutto il corpo. Dondolo la testa
da una parte e dall’altra, per sgranchire i muscoli del collo e scaricare la
tensione. Scoppio in una risata isterica, giro la carrozzina, e mi affretto a
tornare indietro. Ecco, ora sono proprio nei guai. Ma proprio Guai Guai
Guai! Non vedo l’ora di tornare sul viale principale. Cazzo, adesso come
faccio? Magari mi si scarica pure la batteria della carrozzina! Ma che
coglioni!
Sono tornato sul viale principale,
finalmente. Giro fiducioso la testa a destra e a sinistra, ma di Carletto &
Co. neanche l’ombra. Ma che coglioni! Vado a destra e poi torno
indietro, mantenendo una posizione ben centrale. Vedo scorrazzare molti risciò,
ma nessuno con tre persone a bordo. Finalmente ne vedo uno con tre passeggeri.
Mi sento sollevato. Alzo la mano sinistra e preparo un bel sorriso, pronto a
fare un allegro cazziatone; ma quando il risciò si avvicina… devo ritirare
tutto: mano e sorriso. Non sono loro! Ma che cosa aspettano a venirmi a
cercare? Non si sono accorti che non ci sono? Qui devo razionalizzare i
movimenti, non posso continuare così! Se mi si scarica la carrozzina, sono
guai! E sì che Carletto è un professionista: dovrebbe ben sapere che
potrebbe scaricarsi la batteria. Ma che coglione! Torno indietro, fino
alla mappa del parco che avevo notato, e guardo dov’è la cascina. È un po’
lontana, ma decido di riprovarci.
Parto. Comincio a ripercorrere la stessa
strada di prima, ma la tensione e la rabbia hanno raggiunto livelli ormai
incontrollabili. Ma guarda un po’ cosa mi doveva capitare: il professionista
coglione mi doveva capitare! Ma quando arrivo a casa, quelli
dell’Organizzazione mi sentono! Che poi loro, quelli dell’Organizzazione, in
effetti non hanno colpa: Carletto ha un curriculum favoloso, è normale che
scegliessero lui! Chi poteva immaginare che, uno con un curriculum favoloso
come il suo, potesse combinare una stronzata del genere? E ora, che faccio?
Sto percorrendo di nuovo questa strada, e loro non ci sono ancora! Non posso
continuare a girare così a caso: la carrozzina rischia di scaricarsi!
Devo chiedere aiuto. Ma a chi? Anche ammesso di riuscire a parlare in
modo abbastanza chiaro da farmi comprendere, a chi chiedo informazioni?
Qui è pieno di gente, è vero, ma sono comunque tutti dei passanti: non è
detto che sappiano dove è la cascina. Mentre cerco invano la figura di Carletto
& Co., uno spiraglio si apre. Uno spiraglio di speranza. A forma di
entrata. A circa venti metri da me, sulla destra, c’è una deviazione che porta
a due colonne che delimitano l’entrata di un rione. Mentre mi avvicino guardo
meglio: sembra un quartiere agricolo, e ci sono delle case. Sono un po’ in
dubbio se entrare o no: si tratta comunque di abbandonare di nuovo il viale
principale; consumerei batteria, il terreno lì è molto sconnesso, e il
risultato è incerto. Ma comunque, se voglio chiedere aiuto, è lì che devo
andare.
Varco l’entrata, e mi sembra di ritrovarmi in
aperta campagna. Vado avanti per il sentiero sterrato stando ben attento a dove
metto le ruote, per non ribaltarmi. Alla mia sinistra vedo un vecchio contadino
raccogliere legna, qualche metro dietro a lui c’è un bel fuoco, e, un po’ più
lontano, quasi di fronte a me, leggermente alla mia destra, una donna bruna
sbuca dal cortile del rione, camminando a passo spedito. Sarà per l’aspetto
giovane ed eretto, sarà perché, per esperienza, so che le donne sono spesso più
sveglie di noi uomini, sarà per la mia naturale propensione verso il sesso
femminile, ma opto per lei. Io opto per lei ma lei non opta per me, e devia
verso un altro sentiero. Rimango stupito: pensavo che la mia fosse l’unica
strada per entrare e uscire da quel rione; e invece, a quanto pare, no. Capisco
subito che non la raggiungerò più e mi dirigo verso l’agglomerato di case,
disposte a ferro di cavallo. Entro nel cortile e mi colloco nel centro. Lo
spettacolo è deprimente e angosciante; mi sembra di essere capitato in una
città fantasma. Case bianche e fatiscenti, con persiane verdi e porte marroni.
Forse, una volta, erano belle, ma ormai i muri sono sporchi e scrostati,
logorati dal tempo, e le porte, anche se chiuse a chiave, non danno certo
l’idea di sicurezza e protezione.
Comincio a gridare (“Aiuto! Aiuto! Aiuto!”),
ma la parola Aiuto ha una combinazione di lettere davvero ostica per me,
quindi riesco a pronunciare solo la
A , mentre tutte le altre lettere mi muoiono in gola.
Nessuno si affaccia. È inutile rimanere
oltre.
Decido di tentare con il contadino. Torno
indietro, ma… No! Dov’è?… Dov’è finito il contadino? Mi dirigo
nell’esatto punto dove l’avevo visto prima; mi guardo intorno: il fuoco c’è
ancora… ma il contadino no. No, non è possibile! Ho perso l’unico contatto
che avevo! Calma, calma. Sta’ calmo e ragiona. Se ha preso della legna e al
fuoco non c’è, vuol dire che l’ha portata da qualche altra parte. Ma dove?… A
casa, certo: è andato a casa! Torno nel cortile, e scruto tutte le porte
delle case. Laggiù, in fondo, ce n’è una aperta. Il contadino dev’essere là!
Mi avvicino. Il contadino esce, mi guarda incuriosito, e mi viene incontro.
“Hai bisogno di aiuto?“ mi chiede.
La sua voce fessa non promette nulla di
buono, ma io faccio cenno di sì.
“Ti sei perso?”
La risposta esatta sarebbe “No, mi hanno
perso”, ma, per semplificare, taglio corto e rispondo di sì.
Eh-eh! E mo’ viene il bello! In casi come questo, quando
devi spiegare una tua impellente necessità ad un estraneo, devi proprio
dimenticarti qualsiasi forma di preambolo, di sintassi, e di educazione, che
impegnerebbero l’attenzione e il tempo dell’altro inutilmente, e concentrarti
solo sull’informazione primaria in sé. Sono un po’ incerto sull’informazione da
chiedere. Indicargli la borsa, per fargli prendere la mia agenda e telefonare a
qualcuno, mi sembra troppo complicato; quindi, mi rimangono due possibilità:
Cascina o Autodromo? ‘Fanculo l’autodromo!, mi rispondo. Lo guardo fisso
negli occhi, e, scadendo bene le parole, dico semplicemente: “Cascina Costa
Alta.”
“Cascina Costa Alta?! mi ripete. Come, mi
ha capito? Sono sinceramente stupito: non mi aspettavo che ci saremmo
capiti così, al primo colpo; mi affretto a dire di sì. Lui mi guarda un po’
perplesso. “Sei un po’ lontano: la cascina che dici tu è a due chilometri da
qui.”
Io lo guardo sbigottito. Rimango senza
parole, anche nella mente.
“Guarda: Tu, uscito da qui, vai a sinistra;
poi, a un certo punto, vedrai un cartello con l’indicazione 'Bocciodromo'. – Il
contadino mi spiega tutta la strada, sembra facile, ma poi conclude: --
Comunque, secondo me, non ce la fai ad arrivare, perché alla fine c’è una
salita così. Hai capito?”
Dentro rabbrividisco, ma comunque non posso
chiedergli di più: rispondo di sì, lo ringrazio, e, anche se insicuro, vado.
Incontro di nuovo la donna bruna; sarei tentato di chiederle aiuto, ma ho paura
che il contadino, vedendomi, possa rimaner male. Proseguo senza dir niente.
Esco dal rione e comincio a cercare
febbrilmente l’indicazione per il bocciodromo, sperando sempre che la
carrozzina non si scarichi. Finalmente la trovo, esulto, e la seguo. Ma anche
quella strada risulta essere interrotta. Torno indietro sul viale principale, e
mi guardo intorno. Ci sono? No, macché! Ma che gruppo di coglioni!…
Ma che branco di handicappati! Decido di andare ancora alla mappa, per
chiedere aiuto da lì. Ma che imbecilli! La mappa, oltre alla cartina del
parco, mostra, in basso, sei cerchi con i luoghi più importanti del parco. Io
mi posiziono il più vicino possibile, in modo da poter indicare con facilità
Cascina Costa Alta. Comincio a gridare agitando le braccia, per attirare
l’attenzione; le persone, però, non mi degnano neppure e tirano dritto.
Dopo un po’ vedo arrivare una famigliola –
papà, mamma, e bambino -, e io, avendo una fiducia smodata nelle famiglie,
gesticolo ancora di più. L’uomo mi vede sbracciarmi e gesticolare, mi guarda,
e, con lo sguardo assente come il suo cervello, mi risponde: “Ciao!”
“Eh, Buonanotte!” lo saluto
platealmente io.
Finalmente arriva un giovane pattinatore,
castano e riccioluto; arriva sparato sui rollerblade, e, dopo qualche giravolta
di rallentamento, si ferma proprio accanto a me. Io gli indico la cascina, e
lui mi indica la strada; si assicura che abbia capito, e poi se ne va, sparato
com’era arrivato. Vado, ricordandomi che a un certo punto devo girare a
sinistra. Io vado, ma qui è tutto uguale. Dov’è che devo girare? Sono depresso,
angosciato, non ce la faccio più. Il mio sguardo vaga alla ricerca di Carletto
& Co., oppure, in alternativa, di qualche vigile o poliziotto a cavallo (so
che esistono). Avrei voluto evitarlo, ma dopotutto… Cazzi loro: a mali
estremi, estremi rimedi!
Non vedo nessuno.
C’è un viale a sinistra: lo prendo; ma mi
sembra dannatamente uguale a quello che mi aveva portato alla strada
carreggiata e al controviale pedonale senza uscita, e mi faccio prendere dal
panico. Sono sull’orlo d’una crisi di nervi. Incrocio un uomo; vorrei
chiedergli aiuto, ma è troppo impegnato con il suo cellulare. Proseguo.
Pochi metri davanti a me compaiono due
ragazzi: lei è una deliziosa biondina, con i capelli lunghi e il viso rotondo,
pieno di nei ma “pulito”; lui è bruno, capelli corti, viso tendente al rotondo
ma con lineamenti più marcati. Mi vengono incontro. Io devo avere
un’espressione abbastanza spaventata, perché lei mi chiede subito se mi serve
aiuto, senza bisogno che io dica A: io mi affretto ad annuire.
“Ma è da solo?” si chiede lei con stupore e
voce carezzevole, guardandosi intorno. E poi, rivolgendosi a me: “Ma eri con
qualcuno?”
“Con un gruppo.”
“Vedi, era con un gruppo!” esclama, rivolta
al ragazzo.
“Ma io non vedo nessuno”, risponde lui,
scrutando l’orizzonte.
“Neanch’io” ribadisce lei.
Io scoppio in una piccola risatina isterica. Eh!
Non ditelo a me!
“Guarda nella sua borsa, magari ha un numero
da chiamare”, dice lei.
Io sto per assentire, ma lui, con un tono
dolce e imbarazzato, dice: “No… Non me la sento di mettergli le mani in borsa
.”
“Vabbe’… Andiamo in là, vedrai che li
troviamo!” dice la ragazza, rivolgendosi a me. Io non sono proprio così
ottimista, ma capisco che non mi abbandoneranno, e mi sento al sicuro. Li
identifico subito come due angeli custodi mandati da Dio, e lo ringrazio. Sul
serio! Io non sono particolarmente avvezzo a questo tipo di pensieri, non mi
capita molto spesso di ringraziare Dio, e quasi mai lo faccio tempestivamente;
ma, questa volta sì.
C’incamminiamo, e io mi mantengo qualche
metro davanti a loro; abbastanza vicino perché capiscano che sono sempre con
loro, ma abbastanza lontano perché possano continuare a godersi un po’ di
intimità. Li sento ridere e scambiarsi paroline affettuose. È un piacere
sentirli: mi fanno andare indietro nel tempo; agli amori giovanili dei miei
primi amici. Sì, è proprio un piacere sentirli. Parlano tra loro, ma so che
sono con me. Sì, loro sono con me, e sento lei dire: “Ma l’hanno lasciato solo?
Ma che gente è?… Ma come si fa a lasciarlo solo?”
Sogghigno, con soddisfazione e sollievo. La
tipa è sveglia, ha colto proprio nel segno: non pensa che mi sono perso,
pensa che mi hanno perso!
Arriviamo al viale principale, ci guardiamo
intorno, ma… Toh, che strano. Non c’è nessuno.
“Io non vedo nessun gruppo. Se ci fosse un
gruppo, lo vedremmo”, dice lei con aria smarrita e stupefatta.
“Che facciamo, chiamiamo i vigili?” propone
lui.
“No, aspetta. Magari in borsa ha un numero da
chiamare!”
“Ma a me non va di mettere le mani nella sua
borsa”, ribadisce lui, timido e imbarazzato al tempo stesso. Mi fa proprio una
bella impressione: il rispetto, quasi reverenziale, che ha per me e per la mia
privacy mi colpisce e mi commuove. Ma questo non è il momento della
riservatezza, e faccio chiaramente capire che non deve farsi problemi e di
guardare pure nella mia borsa.
“Ecco, vedi, vuole che guardiamo nella sua
borsa; giusto?”
Annuisco con veemenza. “Ho una agenda” dico,
scandendo bene le parole.
“Hai un’agenda?” ripete lei. Poi, vedendo la
mia espressione meravigliata, mi fa: “Sei stupito perché ho capito? Ma io sono
abituata con i bambini, faccio la maestra. Eh sì: la maestra Lisa capisce
sempre tutto!”
Maestra? Ma come maestra? Io
pensavo che andasse ancora a scuola.
Chiedendomi ancora una volta il permesso, il
ragazzo comincia a frugare nella mia borsa, maneggiando ogni cosa come fosse
una reliquia antica di immensa fragilità, finché trova la mia agenda.
“Chi dobbiamo chiamare?” mi chiede Lisa.
La cosa più facile sarebbe far aprire
l’agenda alla prima pagina, dove ho i numeri dei miei familiari e parenti, e
far chiamare i miei genitori. Ma, se lo faccio, mia madre si terrorizza. So di
non avere il numero di quell’imbecille di Carletto, ma so di avere quello di
Filomena, una delle assistenti che era rimasta in cascina con altri ragazzi. So
di avere il suo numero di casa; spero di avere anche quello di cellulare. Dico
di aprire l’agenda alla lettera F, indico il nome di Filomena, ma… Ho soltanto
il suo numero di casa! Il cuore mi sale in gola, ma non dico niente. Lisa
prende il mio cellulare, lo accende, ma si accorge che dovrebbe mettere il pin per attivarlo; e, anziché chiedermi
il codice, mi rimette via il telefono, chiedendo al ragazzo di usare il suo. Io
lo lascio tentare. C’è ancora una piccola possibilità, una fievole speranza:
Asdrubale, avvocato e neo-ex fidanzato di Filomena, in quel momento potrebbe
essere proprio lì, a raccogliere le sue cose.
Asdrubale risponde. Il ragazzo gli parla, e
deve ripetergli due volte che mi hanno trovato a girare da solo in mezzo al
parco di Monza, e che sono molto agitato; gli dà il suo numero di cellulare, di
cui, purtroppo, memorizzo solo le prime tre cifre, e gli dice di richiamarlo
per fargli sapere dove dobbiamo trovarci. Riattacca, e ci riferisce che
Asdrubale si è incazzato e ha detto frasi del tipo: “Ma come da solo?… Ma sono
impazziti?”
Il cellulare suona: è Carletto. Il ragazzo
non riesce fargli capire dove siamo, e allora gli dice che li aspetteremo
all’incrocio dove c’è la mappa.
Ci avviamo. Io vorrei chiedere al ragazzo il
suo numero di cellulare, per poterli richiamare, ringraziare bene, e magari,
perché no, rivederli con un po’ più di tranquillità per chiacchierare un po’;
vorrei proprio farlo, ma, invece, mi blocco: mi stanno aiutando, stiamo
procedendo verso un obiettivo ben preciso, non voglio distogliere la loro
attenzione, per magari agitarli o imbarazzarli. Tanto, penso,
Carletto e Asdrubale ce l’hanno. Sicuramente me lo daranno. Do la
precedenza a una parola, una soltanto, che devo per forza dire ora, se no poi,
nella confusione, magari non riesco più a pronunciare: “Grazie.”
“Di niente, figurati!” risponde prontamente
lei.
Chiedo a lui come si chiama.
“Mauro”, dice sorridendo.
Lei si affretta a ridirmi che si chiama Lisa,
ma in realtà il suo nome l’ho già memorizzato da prima. “E tu?” fa lei, con
voce gioiosa.
“Sergio.”
“Ah, Sergio!”
Arriviamo all’incrocio, e ci mettiamo proprio
accanto alla mappa; così, giusto per essere sicuri che ci vedano. Lisa e Mauro
sono di fronte a me, e, mentre stiamo aspettando che arrivino,
inaspettatamente, veloce come un lampo, tra loro schiocca e sboccia un bacio. È
un bacio-lampo, reciproco e simultaneo, un bacio giocoso, uno di quelli che
solo due fidanzatini possono scambiarsi. Un bacio fresco, giovane, primaverile,
che si fonde perfettamente con i colori di questa bella giornata. Non posso
trattenere un moto di contentezza. Loro se ne accorgono e scoppiano a ridere,
creando tra noi un legame magico e indissolubile.
Arriva Carletto, incredibile ma vero, con il
pulmino dell’Organizzazione. Scende e, anziché dire frasi del tipo Come
stai?… Scusami. Ma che pirla sono stato! oppure Grazie, ragazzi!
Davvero, grazie mille!, comincia a sfottermi dicendo che non ho il senso
dell’orientamento; e quando Lisa gli dice “Guarda che era molto spaventato! “
lui rincara la dose, facendo i versi che di solito si riservano ai bebè, e
sostenendo che mi stavano cercando dappertutto e che, comunque, era tutto sotto
controllo.
Minchia! Lo mando subito, e più
volte, a 'fanculo. Non gli dico dove deve mettersi il pulmino solo perché sul
pulmino devo salirci anch’io.
Mentre uno degli assistenti, senza proferir
parola, mi carica di gran carriera, ho solo il tempo di un ultimo fugace
sorriso con i due ragazzi. Lisa e Mauro sono lì; probabilmente si aspettano che
Carletto dica loro qualcosa. Io lo guardo con due occhi grandi così. Adesso
li ringrazierà, sì. Arriverà a capire che deve ringraziarli! No, macché!
Carletto non arriva a capire neanche questo! Sale sul pulmino, e parte.
Mi guardo intorno, e mi accorgo che la
compagnia è cambiata, a parte Carletto e l’assistente che mi aveva caricato sul
pulmino. Non sono quelli che erano partiti con me dalla cascina, sono quelli
che erano rimasti dentro. E ci sono pure dei miei compagni in carrozzina! Sono
scioccato. Ma come? Venite a cercare me, e, anziché organizzare un gruppo di
soli assistenti in modo da poter essere più liberi nei movimenti, vi portate
dietro le carrozzine? No, non è possibile! Non è proprio possibile!
Filomena, seduta accanto a me, è al telefono
con Asdrubale. Mi dice che Asdrubale poi mi darà il numero di cellulare del
ragazzo, e io, contento, lo ringrazio. Filomena comincia a farmi domande a
raffica, come se potessi spiegare in cinque minuti cosa mi era accaduto, e alla
fine, bella bella esclama: “Sai, Sergio, di questa storia potresti scrivere un
racconto!”
“Sì, sì… Contaci!”
Cascina Costa Alta, Ore
15.30
Mi trovo qui, nel salone. Sono tornato da
poco, e ora sto mangiando. Mi sento ancora un po’ scosso per quello che mi è
accaduto. Tutti mi hanno accolto con un grande applauso, è vero, ma nessuno mi
chiede niente. Perché? Neanche Guido e Viola, i due assistenti con cui ho più
confidenza, mi chiedono niente; neanche come sto. Perché? Il cellulare
di Carletto suona: è mia madre. Carletto le dice “che ho fatto una cosa…!”,
facendole supporre che si tratti di una bricconata.
La saluto, dicendole solo che ora sto bene. Tanto,
penso, ho tutto il tempo per far rabbrividire familiari, parenti, e un
nugolo di amici!…
Quando ho iniziato a
scrivere questo racconto, non immaginavo che venisse così lungo. Il fatto è che
nelle mie molteplici narrazioni orali, per quanto fossero dettagliate, ho
sempre tagliato i particolari dei miei pensieri, delle sensazioni, e degli
imprevisti che incontravo, parti fondamentali della vicenda, per non affaticare
troppo l’ascoltatore; quindi, quella che mi ricordavo all’inizio, al momento
della premessa, era solo la versione “orale”, non quella “integrale”. Poi,
scrivendo, mi è riaffiorato in mente tutto. E solo così, solo mettendo tutto
quello che avevo visto e provato e pensato, espressioni da educanda infuriata
comprese, potevo trasmettere esattamente quello che avevo vissuto, scandendo
l’evoluzione della mia paura “momento per momento”, che comunque ho sempre
dominato. Ma se la paura non ha mai governato la mia mente, ha però dominato quella
degli assistenti, che, accomunati da un malsano concetto di unione di gruppo,
si sono fatti fagocitare tutti dal terrore. E questa vicenda, purtroppo, ha un
epilogo delirante. Io, in cuor mio, so già che deciderò di non querelare
Carletto, anche se potrei diventare ricco con estrema facilità; un po’ perché
appartengo comunque a una famiglia di santi, e un po’ per non creare dei
problemi all’Organizzazione, che, in fondo, non ha colpa. Però non mi va di
dirlo subito, e lo tengo per me. Filomena mi scrive un’e-mail dove mi dice che
mi ha visto un po’ agitato e di confidarmi pure con lei, se voglio. Io mi fido,
le scrivo in due righe quello che penso di Carletto, e lei non mi dice più
nulla, né per e-mail né a voce. Gli altri assistenti, anche quelli che credevo
affezionati, non mi dicono più nulla al riguardo; e quando mi vedono, fanno
finta che sia successo niente. Non solo. Ma non riesco neppure a ottenere il
numero di cellulare di Mauro: né Carletto né Asdrubale, che oltretutto me
l’aveva promesso, l’hanno tenuto, compiendo così un atto gravissimo,
deplorevole e senza senso (senza senso in tutti i sensi!), degno di un racconto
non giallo, ma noir. E pensare che io li volevo solo ringraziare, quei due
ragazzi. E l’ho più volte specificato a Carletto, ad Asdrubale, e
all’Organizzazione, che volevo solo ringraziarli… L’unica vera soddisfazione in
questa vicenda è essere riuscito a cavarmela in una situazione difficile e
imprevedibile, e di aver scoperto di possedere, forse, più capacità di quelle
che sospettavo. Quest’anno il Destino si è dimostrato un mio grandissimo fan,
procurandomi parecchi colpi di scena… tra cui l’incontro con Lisa e
"Mauro" (sperando, ovviamente, che lui si chiami proprio così). Spero proprio
che un giorno, magari con l’aiuto di qualcuno o la complicità di qualche
appuntamento di Alacrán Edizioni, possa procurarmi un altro colpo di scena e
farmeli incontrare di nuovo.
©Sergio Rilletti, 2006